Ebrei e stato di diritto

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Cultura, impegno civile, dialogo, ma senza mai perdere la propria identità: le comunità ebraiche hanno sempre rappresentato il felice esperimento di una minoranza inserita in un contesto più ampio. Oggi forse anche un modello da seguire, visto che ci si trova davanti a una società sempre più composita per origini, appartenenze, sensibilità culturali e religiose.

Ma l’atteggiamento degli ebrei deriva dalle stesse prescrizioni bibliche. Già il primo ebreo, Abramo, infatti, nella Genesi si definisce “straniero e residente” rispetto ai propri vicini. Questa affermazione non intende indicare una condizione giuridica, ma uno stato del pensiero e dell’anima, un senso di appartenenza a un luogo e a una condizione di vita e, nel contempo, un senso di proiezione verso qualcosa di lontano, un ideale verso il quale tendere: quella di Abramo è la condizione paradigmatica del popolo ebraico. Il riferimento è proprio a quei numerosi esempi storici in cui gli ebrei sono stati residenti in un posto nel quale hanno partecipato attivamente allo sviluppo della vita sociale, culturale, economica, pur mantenendo nello stesso tempo una particolare condizione identitaria e culturale. Questo concetto va interpretato con una condizione molto specifica: l’essere (parzialmente) stranieri non va letto come un doppio lealismo di cui spesso gli ebrei sono stati sospettati, ma è l’identità umana ad essere legata a diverse esperienze, conoscenze, valori, storie. Si può essere tante cose assieme infatti, a maggior ragione nell’ebraismo, che è qualcosa di molto complesso e articolato. Si tratta perciò di una sfida, in quanto ognuno di noi deve quotidianamente riuscire a mettere insieme i tanti pezzi della propria identità e per gli ebrei questo processo si fa ancora più complesso. In tale ambito, la tradizione ebraica assume una posizione limpida e trasparente: ovunque ci si trovi a vivere o a risiedere, qualunque sia la propria condizione, la lealtà verso la stato e il rispetto delle leggi del luogo sono da rispettare[3].

“Dinà demalchutà dinà” letteralmente “La legge del regno è legge”; questa sentenza, che compare in alcuni passi del Talmud ed è sviluppata nei codici rabbinici, riferita non al solo regime monarchico ma in genere all’autorità costituita, esprime il riconoscimento da parte della normativa ebraica delle leggi dello stato e il conseguente dovere, anche da un punto di vista religioso, di rispettarle. Non si tratta di un’accettazione indistinta, la halakhà ebraica attribuisce pieno valore solo ad un’autorità che sia stata effettivamente riconosciuta nel territorio cui intende presiedere, la legge deve avere un’utilità per il paese e rientrare nell’ambito di un codice di norme approvato, deve inoltre rivolgersi a tutta la popolazione, non in maniera discriminante, in favore o a torto di qualcuno. Oltre a questi requisiti, che riguardano il rapporto dell’autorità con il paese e la popolazione di riferimento, per quanto si riferisce in particolare al pubblico ebraico, si esclude che una legge dello stato possa esentare dall’osservanza di un esplicito comandamento religioso o imporne la trasgressione. Su questi criteri si è articolato il rapporto dell’ebreo (quando non costretto dalla violenza del potere) nei confronti dell’autorità dello stato. Non tutti i problemi sono risolti, spesso le questioni si devono affrontare caso per caso, soprattutto quando si pongono situazioni di vera o presunta incompatibilità tra legge dello stato ed osservanza delle prescrizioni religiose[4].

Le stesse letture bibliche, per l’esattezza i testi dei Profeti, intervengono sul tema e si raccomandano che gli ebrei seguano le leggi del posto dove vivono e addirittura preghino per il benessere e lo sviluppo della terra e della classe dirigente dove risiedono[5]. Il concetto di integrazione degli ebrei nella società circostante è dunque un motivo storico ricorrente e un tema d’attualità che affonda le proprie origini nella tradizione antica. Gli ebrei, infatti, da quando l’emancipazione alla fine del ‘700 ha permesso loro di inserirsi nella società civile, hanno accettato le norme di convivenza dei Paesi da cui sono stati ospitati, dove spesso hanno acquisito la cittadinanza, beneficiato di diritti e doveri, svolto con partecipazione la loro azione di cittadini e lavoratori. Purtroppo, soprattutto nel Novecento, questa lealtà ha visto anche casi di rifiuto violento da parte delle istituzioni e delle autorità costituite. Per quanto riguarda ad esempio l’Italia, abbiamo dimostrazioni concrete di entrambi i fenomeni: gli ebrei parteciparono ai moti risorgimentali, si impegnarono nella società civile e combatterono per la loro patria italiana nella Prima Guerra Mondiale, peraltro contro altri ebrei schierati sui fronti contrapposti; del Regno d’Italia avevano accettato la Costituzione, lo Statuto Albertino. Eppure fu l’Italia, con le Leggi Razziali del 1938 a violare questo reciproco rispetto. Le Leggi Razziali, peraltro, furono abrogate solo nel 1944, mentre il regime fascista era caduto il 25 luglio 1943.

Rabbini in trincea Sorgente di vita del 27/12/2015 Durata: 13’37’’

La regola secondo la quale “la legge del regno è la legge” costituisce quindi il riferimento assoluto di un’indicazione politica e civile. Partendo da essa, questa unità si propone di esemplificare, attraverso la presentazione di alcune figure “illustri”, un modo di essere e di partecipare alla vita democratica da parte degli ebrei. Racconta quindi i profili di dieci ebrei italiani che nell’arco temporale racchiuso tra il XIX e il XX secolo hanno contribuito alla crescita del proprio Stato in diversi ambiti, mantenendo forte la loro identità ebraica e il loro legame con l’ebraismo tutto. Questi nomi appartengono ai campi più svariati: filologi, politici, scienziati, medici, scrittori, poeti, giornalisti, artisti, musicisti, storici, filosofi, giuristi. Sono casi emblematici dell’eterogeneità delle eccellenze prodotte dall’ebraismo di una piccola parte della Diaspora (gli ebrei italiani non hanno mai superato le poche decine di migliaia). La cernita di questi personaggi ha peraltro costretto a tenere fuori alcuni nomi che avrebbero comunque meritato di essere menzionati.

Chiaramente, la trattazione di questi profili non si propone di essere esaustiva, vista l’ampia mole di materiale che si potrebbe raccogliere, ma ha il semplice obiettivo di delineare il rilievo del contributo dato alla società civile e il mantenimento del legame con l’identità ebraica.

1) Isacco Artom (politico)

2) Giorgio Bassani (scrittore)

3) Elia Benamozegh (rabbino)

4) Primo Levi (scrittore)

5) Rita Levi Montalcini (scienziata)

6) Luigi Luzzatti (politico)

7) Giuseppe Ottolenghi (militare)

8) Giacomo Segre (militare)

9) Enzo Sereni (politico)

10) Vito Volterra (scienziato)

[4] Giuseppe Momigliano, 17 maggio 2017 http://moked.it/blog/2017/05/17/leggi-8/
[5] Si veda anche la sezione Diaspora, paragrafo “Il senso dell’esilio”.

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