Ricorrenze, celebrazioni, festività

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Il calendario ebraico delle feste innesta la vita del popolo in una vera e propria «architettura del tempo».

Le feste ebraiche non sono un mero ricordo di eventi succeduti nella storia di Israele, ma l’occasione per ogni ebreo di rivivere, ogni anno, mese dopo mese, questi eventi e di sperimentarli nella propria vita.

Per questa ragione, le feste sono scandite durante l’anno in modo tale da suscitare un processo di risveglio spirituale. Questo risveglio viene alimentato settimanalmente dal riposo e dalla gioia dello Shabbath, anticipo della vita eterna. Le feste sono il momento e il luogo d’incontro del popolo con la storia della sua salvezza, operata da Dio.

Le feste di Israele sono quindi «celebrazioni-evento» che, attraverso segni sacramentali e tradizioni, rafforzano il rapporto dell’ebreo con il suo Dio, con il suo popolo, con la sua terra e con la sua storia.

Ogni festa ebraica è memoriale del passato, che, celebrando, si fa presente e diventa il nostro «oggi» ed è anche il nostro legame con l’avvenire, visto che riviviamo e attualizziamo il passato, trasmettendolo ai nostri figli.

In occasione della festa ebraica avviene un’intensificazione della vita sociale, a scapito del vissuto individualista: è l’occasione per riunirci in famiglia e in comunità, a rievocare, testimoniare e trasmettere gli eventi salienti della nostra storia.

Il carattere comune a tutte le feste di Israele è di intercalare momenti di pausa nella nostra esistenza. La festa ebraica è molto più che un momento di riposo o di distensione, ma è essenzialmente un tempo nel quale viviamo in modo più intenso l’alleanza che Dio ha stretto con noi.

In questa prospettiva l’interdizione di certi lavori durante le feste si spiega facilmente: lavorando esercitiamo un influsso sul mondo esterno, lo trasformiamo. Le nostre feste, al contrario, sono quindi un tempo per fermarci, perché Dio possa agire con più forza nella nostra vita e trasformarla a sua immagine.

L’ebraismo non conosce solo il linguaggio delle parole, ma anche quello dei gesti, dei segni e dei comportamenti. Durante le feste ogni minima azione si riveste di significati. Come ogni parola fa parte di una frase, di una preghiera, così ogni gesto è segno sacramentale e parte integrante della festa che si celebra[10].

Numerose sono le cadenze del calendario ebraico: alcune di queste sono riconducibili a eventi o momenti lieti, mentre altre possono essere considerate giornate di riflessione o di lutto da rispettare.
Inoltre, alcune ricorrenze (Sukkòt, Pesach e Shavuòt) sono legate ad antichi pellegrinaggi che venivano effettuati a Gerusalemme, altre sono riconducibili a eventi storici, oppure sono legate a particolari momenti dell’anno e al ciclo agricolo e del tempo.
Può risultare curioso come le medesime festività, celebrate dallo stesso popolo in ogni angolo del mondo, pur mantenendo il loro significato inalterato, siano onorate seguendo riti o tradizioni anche molto diversi tra loro. È questo il naturale risultato della dispersione del popolo ebraico sulla terra e della conseguente influenza esercitata dagli stili di vita adottati nei diversi paesi[11].
È interessante rilevare come l’ebraismo sia una religione pratica: nelle varie esperienze in cui si snoda l’atto di fede, l’uomo è infatti sempre chiamato a fare qualche cosa.

L’uomo è chiamato a concretare la spiritualità del mondo colla sua opera, non come una cosa data, ma come una cosa che si deve conquistare. La religione ebraica è la religione dell’atto, dell’azione, e tale volle essere nella mente di Gesù, non la religione del dogma, della teoria. Conoscere Dio non vuol dire capirne intellettualmente l’essenza, ma seguirlo nelle sue vie, far quello ch’egli fa o ordina che si faccia come coscienza delle coscienze.

La religione dev’essere vissuta. L’uomo capisce Dio oprando; e l’uomo attua l’idea quando l’effettua nella società degli uomini. Si crede veramente a quello che si fa. Quindi per l’ebraismo prima è l’azione poi la fede; l’azione è la vera dimostrazione della fede[12].

Quando si dice che l’ebraismo è uno stile di vita, si fa riferimento proprio al fatto che la religione si declina e si manifesta attraverso un insieme di atti pratici, che caratterizzano il modo di agire e la vita di ogni ebreo.

È vero che ogni religione ha i suoi riti e le sue pratiche, che non esiste un credo che non si rivesta di determinate forme esteriori, che non esiste alcuna fede che non si esprima con la preghiera e con dei riti, senza i quali scadrebbe a un semplice atteggiamento di vaga religiosità. Nell’ebraismo, però, i riti e le pratiche quotidiane occupano un posto del tutto particolare.

Per la sua stessa natura la dottrina ebraica è essenzialmente pragmatica: Israele si autodefinisce il popolo servitore di Dio. Il suo dovere principale, se non esclusivo, è quello di compiere la volontà divina. Questa volontà si esprime per mezzo della Torah, e per mezzo delle mitzvoth (i precetti) che essa prescrive.

L’ebraismo si fonda su un certo numero di verità metafisiche e pertanto la sua principale preoccupazione è quella di portare i fedeli a conformare le loro azioni ai precetti divini. La Torah scritta e orale dice a più riprese che l’amore e il timore di Dio si manifestano nella forma migliore mediante l’obbedienza ai comandamenti divini (…)

Osservare la Torah e mettere in pratica le mitzvoth costituisce pertanto un dovere così intimamente connaturato all’anima di Israele da diventare tutta la sua vita. L’ebraismo è una dottrina dell’azione e questa azione è diretta a questo mondo, anticamera del mondo futuro.

All’uomo è stato dato il compito di completare e di perfezionare il mondo, lasciato volontariamente incompiuto, per mezzo dell’osservanza dei precetti che riguardano le leggi di giustizia, di amore, di santità. In questo modo l’uomo diviene il collaboratore di Dio per costruire la città terrestre secondo un modello ideale che Dio ha stabilito per lui (…)

Vediamo bene pertanto che non è possibile limitare l’ebraismo all’ambito puramente religioso e morale, ma che va infinitamente al di là di quei limiti che generalmente delimitano una religione per abbracciare tutti i momenti e i settori dell’attività umana. Esso regola non solo i doveri dell’uomo nei confronti di Dio e i rapporti interpersonali, ma anche il comportamento verso gli animali e la natura[13].

Non a caso il popolo a cui Mosè consegnerà le Tavole della Legge risponde con una promessa che implica l’adeguamento alle norme sancite dalla Torah: “eseguiremo ed ascolteremo”[14], e non è un caso che prima venga il fare e poi l’ascoltare ed il capire.

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La prima festività del calendario ebraico è Rosh ha Shanà (Capodanno).

Rosh ha shanà è la memoria della Creazione dell’uomo nel giorno del venerdì.

Ciò che si festeggia non è la nascita della Terra, bensì quella dell’uomo!
Si potrebbe dire che questa festa non è una ricorrenza di carattere storico, bensì individualista.
Poiché si ripercorre tutto quanto accaduto nell’anno passato, è anche noto come giorno del giudizio.
Nell’ebraismo non esistono intermediari tra l’individuo e Dio, e nel giorno di Rosh ha Shanà – come nei 10 giorni successivi che lo separano dallo Yom Kippùr – ciascun ebreo è chiamato ad una riflessione (il cosiddetto percorso della Teshuvah, che significa pentimento) sulle azioni e i comportamenti tenuti nell’ultimo anno, per riconoscere le proprie colpe e potersi migliorare alla vigilia di quello nuovo.
Oltre che come rinnovamento dell’anno, questa ricorrenza viene vissuta come un nuovo inizio spirituale.
Durante la festa di Rosh ha Shanà inoltre, si suona lo Shofàr. Si tratta di uno strumento a fiato costituito da un corno di montone che l’officiante fa suonare per richiamare i fedeli alla riflessione e al pentimento.
Esso ricorda il momento in cui Abramo, chiamato da Dio a sacrificare il suo amato figlio Isacco, viene fermato dal Signore che, ormai certo della sua obbedienza e fedeltà, gli blocca la mano e invia un montone, perché venga sacrificato in luogo di Isacco.

Esempi di shofàr

Esempi di shofàr

Usi: per augurare un anno buono e dolce, è tradizione consumare cibi dolci ed intinti nel miele.

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Segue cronologicamente la ricorrenza di Yom Kippùr, la più solenne di tutto il calendario ebraico, che ogni ebreo, anche quello meno osservante delle pratiche religiose, ricorda di celebrare.
Kippùr è il giorno dell’espiazione, è previsto un digiuno della durata di circa 25 ore durante il quale non si mangia e non si beve alcunché.
Non è sufficiente tuttavia l’astensione dal cibo e dall’acqua per completare il processo di pentimento ed essere iscritti per un altro anno nel Libro della Vita: è necessaria una vera e profonda riflessione sulle azioni e i pensieri che ci hanno accompagnato nell’anno appena trascorso.
Le festività di Rosh ha Shanà e Kippùr, con cui si apre l’anno ebraico, e i dieci giorni che intercorrono tra di esse, sono particolarmente solenni e impongono una pausa dagli affanni e una riflessione per ciascun uomo, chiamato a soffermarsi su quanto compiuto durante l’anno appena trascorso e su quanto intende fare – per migliorarsi – durante quello che inizia.
È fondamentale rilevare come anche in questo senso è possibile evidenziare la caratteristica fondamentale dell’ebraismo secondo cui non c’è mediazione tra l’ebreo e Dio: ogni individuo risponde ed è responsabile del proprio operato solo nei confronti di Dio.
Proprio perché non c’è mediazione nell’ebraismo tra individuo e Dio, ciascun ebreo risponderà dinanzi al Signore dei torti che egli ha manifestato nei suoi confronti; ma per i torti che invece l’uomo ha compiuto nei confronti di un altro uomo, il confronto e le scuse saranno dovute personalmente, vis à vis, nei dieci giorni penitenziali che intercorrono tra Rosh ha Shanà e Kippùr.
Usi: oltre all’astensione dal cibo, il giorno di Kippùr prevede il divieto di lavarsi completamente, di profumarsi, di indossare scarpe di cuoio e di avere rapporti sessuali.

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La sera stessa in cui termina Kippùr, come in un ciclo interminabile, si inizia la costruzione della sukkà.

Sukkòt è la festa delle capanne: sukkà significa infatti capanna, che si costruisce a ricordo delle precarie costruzioni che gli ebrei fabbricarono durante la quarantennale peregrinazione nel deserto.

La festa di Sukkòt è spesso stata interpretata come un monito a considerare precaria tutta la nostra esistenza e la nostra vita, precaria come i rami e le frasche di cui la capanna è costruita. La precarietà è caratteristica della natura umana e con essa è necessario convivere: si deve però gioire sotto la sukkà, pur nella consapevolezza dell’instabilità della costruzione che c’è sopra la nostra testa.
Tutti possono costruire la propria sukkà se hanno a disposizione uno spazio domestico esterno (balcone, terrazzo, giardino), altrimenti ci si potrà recare presso la sukkà costruita dalla comunità ebraica.
Usi: durante i 7 giorni di questa festa gioiosa si vivrà, si mangerà, si dimorerà – perfino si dormirà! – sotto le capanne.

Il primo giorno voi prenderete un frutto di bell’aspetto, un ramo di palma, rami di mirto e di salice, e vi rallegrerete davanti il Signore vostro Dio per sette giorni[15]

Si è soliti seguire questa prescrizione e agitare il lulàv – cioè il mazzetto costituito dai rami e dal frutto del cedro – in tutte le direzioni per invocare la protezione sulla terra.

Una sukkà

Una sukkà

Lulàv

Lulàv

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Il settimo giorno di Sukkot è HoshàanàRabbà: in occasione di questa festività si usa compiere
sette giri intorno alla Tevà con illulav e durante le preghiere si usa agitare dei rametti di salice che
alla fine della preghiera vengono battuti per terra.
A Roma, presso il Tempio Maggiore, questa cerimonia richiama un altissimo numero di fedeli,
dando vita ad una suggestiva funzione religiosa unica nel suo genere.

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Sukkòt si conclude con il giorno di Sheminì Atzeret, che chiude il ciclo delle feste autunnali, cui segue Simhat Torah, cioè la gioia della Torah.

In quest’ultima ricorrenza si conclude la lettura della Torah e, come un cerchio che non ha inizio e non ha fine, immediatamente se ne riprende la lettura da principio.

Usi: si è soliti attribuire ogni anno a due frequentatori della sinagoga il compito di leggere l’ultimo brano della Torah e di ricominciare la lettura: il primo lettore viene definito lo sposo della Torah e il secondo lo sposo del principio.

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Channukkà celebra l’inaugurazione del Tempio di Gerusalemme a seguito della vittoria riportata dai Maccabei sugli Ellenisti.
Il piccolo ma coraggioso esercito dei Maccabei era stato infatti in grado di resistere e sconfiggere il numeroso e potente esercito di Antioco Epifane che aveva requisito il tempio ed imposto agli ebrei il culto e l’adorazione degli Dèi greci.
La tradizione ebraica racconta che dopo la sconfitta dell’esercito greco, all’interno del Tempio- che era stato sconsacrato – gli Ebrei vollero riaccendere la Menorà. Venne rinvenuta però solo una piccola ampolla contenente una irrisoria quantità d’olio che tuttavia – e questo fu il prodigio – durò otto giorni, il tempo necessario per la preparazione di nuovo olio puro.
Per questo Channukkà dura 8 giorni e per questo il candelabro (la Chanukkià), su cui ogni sera si accende una candela in più, ha otto braccia, più una, lo shammash, il servitore – più alta -, che serve per l’accensione di tutti gli altri.
È importante ricordare che ciò che si celebra non è la vittoria militare, quanto la metaforica sopravvivenza e forza della luce, che ha resistito al buio dell’oppressione ellenica che voleva annullare le tradizioni ebraiche per imporre l’idolatria.
Usi: è la festa dell’olio, per questo è tradizione consumare cibi fritti.
I bambini giocano con il sevivòn, la trottola tipica di Channukkà: sulle quattro facce della trottola sono riportate quattro lettere ebraiche che significano: “Un grande miracolo si verificò qui” in Israele; “Un grande miracolo si verificò lì” nella Diaspora.

Sevivòn

Sevivòn

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Tu Bishvàt è il capodanno degli alberi, ricorrenza legata alla celebrazione della terra e alla fertilità.

Usi: è usanza consumare durante la sera di questa festa i sette frutti simbolo di Israele: grano, orzo, uva, fichi, melograni, olive e datteri.

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Purìm, è la allegra festa dei rovesciamenti – e per questo viene talvolta associata, sebbene non vi siano reali connessioni, al Carnevale – in cui è tradizione mascherarsi e celare la propria identità.
In occasione di questa festa è d’obbligo la lettura della Meghillà di Ester, la storia della regina da cui deriva la festa: ci troviamo nella Persia di circa 2500 anni fa.
La tradizione racconta che dopo che la regina Vashtì, moglie di re Assuero, fu giustiziata per avergli disobbedito, il re andava alla ricerca di una nuova moglie. La ricerca della donna più bella del regno si concluse con la scelta di Ester, che venne incoronata regina e che nascose al re la sua identità ebraica.
Mordekhai, consigliere del re e zio di Ester, venne a conoscenza di un complotto contro il re e lo fece avvertire da Ester, che si guadagnò il rispetto del re.
Nel frattempo, il perfido Amàn, anch’egli consigliere del re, venne elevato al massimo rango e da quel giorno impose che tutti si inginocchiassero al suo passaggio. L’unico a sottrarsi a questo obbligo fu Mordekhai, lo zio della regina Ester poiché, in quanto Ebreo, rispettava il precetto di non prostrarsi se non di fronte al proprio Dio.
Amàn non poté sopportare questo affronto e, una volta conosciuta la sua identità ebraica, decise di sterminare l’intero suo popolo.
Convinse allora il re Assuero della bontà della sua decisione e il re decise di fidarsi di lui.
Mordekhai ed Ester, conosciuto l’editto del re, capirono di dover venire in aiuto del loro popolo: Ester si recò quindi dal re pregandolo di indire un banchetto e di invitare anche il perfido Amàn.
Quella notte il re non riuscì a prendere sonno e chiese che gli venisse letto il libro delle cronache nel quale era registrato un vecchio servigio che Mordekhai gli aveva reso. Subito dopo la lettura del passo relativo, Amàn si presentò al re per chiedere che Mordekhai venisse impiccato. Ma il re chiese ad Amàn cosa si dovesse fare per onorare un uomo. Amàn rispose pensando che il re volesse onorare lui stesso. Al termine della risposta il re ordinò ad Amàn di fare quanto appena detto in onore di Mordechai!
Amàn, divenuto una furia, fece come comandato e tornò alla propria casa. Non appena arrivato, giunsero gli eunuchi del re che lo accompagnarono al banchetto. Durante il banchetto, la Regina Ester chiese che il suo popolo venisse tratto in salvo.
Accadde quindi che nel giorno fissato per lo sterminio degli ebrei (14 di Adàr) venne invece impiccato Amàn.
Per questo la festa viene definita dei rovesciamenti!

Il banchetto di Assuero, Domenico Fiasella, Genova, Palazzo Lomellini/Patrone

Usi: oltre a mascherarsi e organizzare recite in cui i bambini inscenano la storia di Purìm, è usanza scambiare doni e dolci ed inviarne ai poveri.

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La festività di Pesach rappresenta, insieme al giorno di Kippùr, una delle celebrazioni più sentite dal popolo ebraico.

Attraverso la lettura dell’haggadà, il racconto, viene ripercorsa l’epopea dell’uscita degli ebrei dall’Egitto guidati da Mosè, l’affrancamento dalla schiavitù e la conquista della libertà.
Usi: nella Diaspora si usa celebrare per le prime due sere un seder, letteralmente ordine, una cena rituale nel corso della quale si legge tutta l’haggadà e si coinvolgono tutti i partecipanti nella lettura per farli immedesimare nella storia dell’uscita dall’Egitto.
Alto è il valore pedagogico di questo rituale, che vede coinvolgere soprattutto i più piccoli attraverso stimoli e domande.
Durante la celebrazione del seder, si trova sulla tavola un piatto su cui sono riposti alcuni cibi che hanno un alto valore simbolico.

Il piatto del seder di Pesach

Il piatto del seder di Pesach

In particolare troviamo:

  • Una zampa di agnello, in ricordo del sacrificio pasquale che veniva compiuto al Tempio di Gerusalemme;
  • Delle erbe amare (maròr), come simbolo dell’amarezza che affliggeva gli ebrei durante la schiavitù d’Egitto;
  • Del charòset (una sorta di marmellata composta da vari frutti), simbolo della calce con cui gli ebrei costruivano i mattoni in Egitto;
  • Un uovo sodo, come cibo di lutto a ricordo della distruzione del Tempio di Gerusalemme
  • Vi è poi un gambo di sedano, in ricordo della corrispondenza di Pesach con la primavera e la mietitura.

Gli otto giorni di questa festività sono inoltre caratterizzati dal consumo del pane azzimo (matzà), non lievitato, e dal divieto di consumare ogni cibo lievitato, a ricordo del fatto che gli ebrei, per scappare dall’Egitto, non ebbero tempo di far lievitare il proprio pane[16].

Matzà, il pane non lievitato che si mangia nei giorni di Pesach

Matzà, il pane non lievitato che si mangia nei giorni di Pesach

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Secondo la Torah, la seconda sera di Pesach si effettuava un’offerta dei frutti del raccolto, che veniva ripetuta la sera di Shavuòt. Il precetto di contare i 49 giorni intercorrenti tra le due sere è rimasto, ed è il conteggio dell’omer, che è un’unità di misura del raccolto.
Durante l’omer non si celebrano matrimoni o feste e c’è chi usa evitare alcune attività, come tagliarsi barba e capelli. Si tratta infatti di un periodo di lutto che ricorda le tragedie subite dal popolo ebraico e, in particolare, la morte dei 24.000 studenti di Rabbi Akiva, un grande e venerato studioso, per un’epidemia diffusasi nel II secolo dell’Era volgare (cioè dopo la nascita di Gesù).
Lag baomer cade il trentatreesimo giorno ed è una giornata di festa che interrompe tale periodo di lutto, che riguarda anche la ricorrenza della nascita e della morte di un altro importante rabbino, Shimon bar Jochai.
La giornata di Lag baomer viene trascorsa all’aperto e si usa accendere un falò.

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Shavuòt ricorda il dono delle Tavole della Legge che Dio fece a Mosè sul Monte Sinài.

Usi: si è soliti addobbare le sinagoghe con fiori freschi, a ricordo dell’antica consuetudine risalenti ai tempi del Tempio di Gerusalemme in cui si usava portare primizie.

È uso inoltre consumare latticini, poiché il sapore della Torah è simile a quello del latte e del miele!

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Tishà be Av, è un giorno funesto nella memoria del popolo ebraico – nel corso del quale si effettua digiuno – e corrisponde alla distruzione del Tempio di Gerusalemme e all’inizio della Diaspora.
Tishà be Av è un giorno di lutto particolarmente sentito dal popolo ebraico poiché in quel giorno si sono verificate la distruzione del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme. Anche la cacciata degli ebrei dalla Spagna ad opera di Isabella di Castiglia e Ferdinando II di Aragona nel 1492, cadde in questa data.
Come durante lo Yom Kippùr, si osserva un digiuno completo.

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Solo in tempi recenti, al calendario delle celebrazioni si sono aggiunte Yom ha Zikaron e Yom ha Atzmaut, che nel corso dell’anno si celebrano tra Pesach e Shavuòt.
La prima, istituita con legge in Israele nel 1963, è la giornata dedicata a tutti coloro che sono caduti in guerra per la difesa dello Stato di Israele e alle vittime del terrorismo.
Tutta Israele, con la febbrile attività delle sue città, si ferma nel minuto in cui in tutto il paese risuona la sirena che ricorda i caduti.

La seconda – che cade il giorno successivo – celebra invece l’anniversario della fondazione, avvenuta il 14 maggio 1948, dello Stato di Israele[17].

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Possiamo chiudere questa veloce carrellata sulle festività ebraiche ricordando i digiuni minori che cadono durante l’anno ebraico.

Il 10 del mese di Tevet, che ricorda l’inizio dell’assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi.

Il 17 del mese di Tammùz, che ricorda diversi episodi catastrofici della storia del popolo ebraico (come il momento in cui Mosè spezzò le tavole della legge dopo aver visto il suo popolo danzate intorno al vitello d’oro, o la distruzione delle mura di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 586 a.e.v.)

Il digiuno di Ester che cade il giorno prima di Purìm e che ricorda il digiuno della regina Ester prima del suo intervento davanti al re.

Il digiuno di Ghedalià che ricorda l’uccisione dell’ultimo governatore di Gerusalemme, dopo che il Tempio fu distrutto dai babilonesi

Il digiuno dei Primogeniti si svolge alla vigilia di Pesach e ricorda la morte dei primogeniti d’Egitto.

[10] Yittzchaq Leib Peretz, Sholem Aleichem, Le feste ebraiche, Paoline, Milano, 2000, pp. 17-18
[11] Si veda a questo proposito l’unità sulla diaspora
[12] Dante Lattes, Apologia dell’ebraismo, A. F. Formiggini, 1925, Roma, pp. 42-43, si veda edizione La Zisa, Palermo, 2011
[13] Ernest Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, p. 11 ss
[14] Esodo, 24, 7
[15] Esodo, 24, 7
[16] Per approfondire i significati di questa festività, si veda anche l’unità La libertà e i suoi limiti
[17] Si veda a questo proposito l’unità su Israele.

 

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