Dalla Guerra dei Sei Giorni alla Guerra del Kippur

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Il 1967 fu un anno di svolta per la storia israeliana. La Guerra dei Sei Giorni combattuta nel mese di giugno mutò i confini dello Stato, gli equilibri della regione e le posizioni delle Superpotenze. Ma procediamo con ordine.

Il 13 maggio 1967 l’Unione Sovietica inviò a Nasser un rapporto confidenziale in cui si affermava che gli israeliani stavano schierando truppe al confine settentrionale in vista di una guerra contro la Siria. In realtà, non aveva avuto luogo alcun tipo di mobilitazione. Nasser tuttavia non esitò ad attivarsi: il giorno dopo, due reparti egiziani penetrarono nel Sinai; a distanza di altri due giorni, il leader egiziano chiese alle forze di interposizione dell’UNEF (circa 1500 uomini) di abbandonare la Penisola e di riposizionarsi a Gaza. Il Segretario Generale dell’ONU, il birmano U Thant, dispose, senza consultare né il Consiglio di Sicurezza né l’Assemblea Generale, che i soldati dell’UNEF si ritirassero, in quanto non potevano rimanere senza il consenso del Cairo. Fu un primo segnale interpretato come un via libera alla guerra. Il Presidente americano Johnson optò per la moderazione, interagendo con tutti i leader coinvolti (Nasser, l’israeliano Levi Eshkol, il primo ministro sovietico Kosygin), facendo però così pensare al leader egiziano che gli USA non sarebbero intervenuti in un possibile conflitto. Nasser alzò pertanto la posta in gioco: il 22 maggio dichiarò il blocco della navigazione per le navi israeliane attraverso lo stretto di Tiran. In Israele crebbe la tensione e iniziò la mobilitazione delle forze armate; il 1 giugno si formò un nuovo governo di unità nazionale presieduto sempre da Levi Eshkol e con Moshé Dayan, eroe della campagna del ’56, alla Difesa. Gli Stati Uniti, presi dalla guerra in Vietnam, invitarono le parti alla cautela per non essere coinvolti su un nuovo fronte; Francia e Gran Bretagna, ancora scottate dalla Crisi di Suez, non intendevano muoversi senza l’appoggio degli USA. Tuttavia, il 4 giugno 1967, il governo israeliano optò per una gestione risoluta della crisi.

Il 5 giugno 1967 l’aviazione di Israele attaccò di sorpresa le basi aeree egiziane e neutralizzò l’aviazione di Nasser, prima che i suoi aerei potessero levarsi in volo. Nei giorni immediatamente successivi passarono all’azione gli eserciti e le forze corazzate. Rapidi movimenti di truppe, guidati dal Capo di Stato Maggiore israeliano, Yitzhak Rabin, svuotarono i progetti strategici egiziani. In quattro giorni gli israeliani occuparono tutto il Sinai fino alla sponda orientale del canale di Suez, che non attraversarono. Il primo giorno di guerra, da Tel Aviv era partito un monito per Hussein [re di Giordania]: se le truppe non avessero partecipato al conflitto, gli israeliani non si sarebbero mossi dalle loro posizioni. Hussein non poté o non volle ascoltare il monito e la risposta israeliana fu radicale: tutta la Cisgiordania venne occupata, così come venne occupata anche tutta Gerusalemme. A nord, durante gli ultimi due giorni di guerra, gli israeliani attaccarono le alture del Golan, cioè la fascia di colline che costituiva il confine con la Siria. Fra il 9 e il 10 giugno l’area venne occupata. […] La «guerra dei sei giorni» aveva più che raddoppiato l’estensione del territorio occupato dagli israeliani. Dalle alture del Golan alla striscia di Gaza, alla Cisgiordania, a tutta la penisola del Sinai, il controllo israeliano era completo. Il 28 giugno, il governo di Tel Aviv decise l’unificazione di Gerusalemme ebraica e di quella araba in una sola entità «definitivamente» inseparabile […][13].

Un paese che si era sentito accerchiato e minacciato fino a soli pochi giorni prima era diventato la potenza militare decisiva in Medio Oriente, e il suo popolo aveva acquistato fiducia in sé ed era orgoglioso dei risultati che aveva raggiunto[14].

Con la vittoria del ’67 e l’annessione di nuovi territori ebbe inizio un dibattito destinato a protrarsi per decenni (e in parte tuttora irrisolto): la gestione israeliana di queste nuove aree, con implicazioni strategiche (come il Golan, decisivo per monitorare le azioni siriane al confine) e religiose (soprattutto in merito a Gerusalemme: l’annessione, infatti, includeva anche il Muro Occidentale, il Kotel, quanto rimasto dell’antico Santuario, il Bet Ha Mikdash).

Uno dei primi effetti della travolgente avanzata delle truppe israeliane fu una nuova ondata di profughi che faceva seguito a quella del 1948. […] [Erano] circa 145mila rifugiati della Nakba, che si rimisero in cammino, e almeno 200mila cisgiordani. Le cifre […] indicano che 245mila individui si spostarono dalla Cisgiordania e da Gaza in Giordania, 11mila da Gaza in Egitto e 116mila palestinesi e siriani dalle alture del Golan in Siria[15].

I margini per i negoziati erano assai ridotti, con l’intransigenza da parte dei paesi arabi nell’accettare l’esistenza di Israele e lo Stato ebraico che non vedeva alcuna ragione di fare ampie concessioni a coloro che li avevano minacciati fino a poco tempo prima.

Un passo avanti sembrò essere la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza del 22 novembre 1967, presentata dai britannici; […] costituiva un compromesso attentamente negoziato. La risoluzione riconosceva «la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di tutti gli stati dell’area e il loro diritto a vivere in pace all’interno di confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce o atti di forza»: nel caso in cui l’Egitto e la Giordania l’avessero accettata, avrebbero automaticamente riconosciuto il diritto di Israele di esistere. La risoluzione affermava inoltre che doveva esserci «una giusta soluzione del problema dei rifugiati» […] al cuore della risoluzione 242 c’erano le sezioni relative alla forma futura di un accordo di pace. Questo avrebbe dovuto includere «il ritiro delle forze armate di Israele da territori occupati nel recente conflitto», una formula sibillina che deliberatamente ometteva l’articolo prima di «territori». Perciò mentre gli arabi sostenevano che con essa si intendevano tutti i territori, gli israeliani rispondevano che implicava solo alcuni dei territori[16].

La guerra del ’67 ebbe numerosi effetti anche a livello globale. Da quel momento, infatti, gli USA confermarono la scelta israeliana, dopo due decenni di tentennamenti (fino al 1966 avevano persino venduto armamenti ai regimi arabi moderati). Fu soprattutto con la presidenza Nixon che confermarono questo riavvicinamento e la nuova linea politica ad esso collegata.

Il ruolo di Nasser fu ridimensionato e l’Unione Sovietica, rimproverata per non aver dato un adeguato supporto, fu messa alla prova con la richiesta di nuovi aiuti economici e militari.

I palestinesi, trascurati da tutti gli attori coinvolti nella Guerra dei Sei Giorni, videro un ulteriore peggioramento della propria condizione. La contrapposizione tra la leadership dell’OLP e il governo della Giordania (paese in cui era affluito un gran numero di profughi e che accoglieva numerosi campi di rifugiati, nonché terreno fertile per il reclutamento per la guerriglia anti-israeliana) sfociò nel 1970 nel cosiddetto “settembre nero”: numerosi militanti palestinesi furono eliminati e l’azione politica dell’OLP venne ricondotta sotto il controllo del governo giordano. Parallelamente, l’OLP occupò posizioni anche in Libano, acquisendo gradualmente un’autonomia che nel giro di qualche anno l’avrebbe portato a essere quasi uno Stato all’interno di un altro Stato[17]. Dal 1968, intanto, l’azione palestinese contro Israele si diffuse attraverso la guerriglia, fatta di dirottamenti aerei e attentati.

La morte di Nasser nel settembre 1970 portò sulla scena un nuovo protagonista, il colonnello Anwar al-Sadat. Nel contesto internazionale della distensione, questi si convinse che sarebbe servita una nuova guerra per guadagnare posizioni su Israele.

Questi gli elementi, locali e globali, che accompagnarono la situazione mediorientale verso l’ennesimo conflitto, la Guerra del Kippur del 1973.

Tensioni crescenti e questioni irrisolte facevano pensare che prima o poi sarebbero state riprese le armi, ma non si ebbe immediato sentore del precipitare dei rapporti.

La scelta araba di aggredire Israele il 6 ottobre 1973, giorno del kippur quando tutto il paese si fermava per 25 ore, rispondeva ad un preciso calcolo. Si trattava del momento in cui minori erano le capacità di comunicazione e quindi maggiore la sua vulnerabilità: buona parte dei militari erano nelle loro case mentre la quasi totalità dei reparti si trovava a ranghi ridottissimi. Alle due del pomeriggio iniziò il conflitto. Il primo punto d’attacco era costituito dal Sinai. […] Nel mentre, il secondo e assai più rischioso punto d’attacco, costituito dalle alture del Golan, aveva già visto l’entrata in azione di un migliaio di carri armati siriani. Il rapporto tra attaccanti e difensori, in questo caso, era di 9 a 1. Il comando dell’esercito israeliano decise da subito di dare la precedenza al conflitto con i siriani, rimanendo sulla difensiva nel Sinai, poiché il Golan era a diretto contatto con le città israeliane ed uno sfondamento avrebbe potuto causare l’accesso delle truppe nemiche al cuore del paese. […] Solo due giorni dopo l’inizio dell’attacco, l’8 ottobre, la situazione andò stabilizzandosi e l’offensiva siriana fu arrestata. […] Nel Sinai, intanto, un primo tentativo di contrattacco da parte israeliana si era concluso in una sconfitta. Il 14 ottobre gli egiziani […] ripresero l’iniziativa attraverso un rovinoso attacco frontale contro gli israeliani, fallendo nell’obiettivo che si erano dati. La battaglia che ne era seguita […] fu una sconfitta determinante nel segnare il ribaltamento delle sorti nella guerra in corso[18].

Gli USA supportarono Israele con un ponte aereo che permise di consegnare oltre 22mila tonnellate di rifornimenti per l’esercito. Nel frattempo, la controffensiva della fanteria nel Sinai guidata dal generale Ariel Sharon riuscì ad avere la meglio sull’avversario. A Nord, nonostante il supporto di truppe e mezzi provenienti da Iraq e Giordania, l’esercito israeliano penetrò per 50 km circa, avvicinandosi a Damasco. Si prefigurava nuovamente una netta vittoria israeliana: esito poco gradito a tutti gli attori esterni, Stati Uniti inclusi. Vi era infatti il rischio che il conflitto degenerasse, ma si temeva soprattutto la ritorsione dei paesi arabi produttori di petrolio. Già dal 16 ottobre, infatti, i Paesi membri dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries, Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) tagliarono la produzione mensile di greggio del 5% e praticarono l’embargo sulle esportazioni petrolifere nei confronti di Stati Uniti e Paesi Bassi (da cui avveniva la distribuzione dei rifornimenti dell’Europa continentale). Queste misure furono ritirate cinque mesi dopo, ma l’impatto sui rifornimenti energetici e sulle economie occidentali fu devastante.

Il Segretario di Stato Kissinger, dopo aver concordato la linea anche con il Cremlino, si recò in Israele dove convinse a raggiungere un accordo il Primo Ministro Golda Meir, la quale accettò, seppure non ne fosse pienamente convinta. Il 27 ottobre 1973 i combattimenti cessarono. Israele aveva vinto anche questa guerra, ma, a causa dell’impreparazione dei primi giorni, aveva perso il mito dell’invincibilità.

I trattati con Egitto e Siria furono realizzati con la mediazione di Kissinger.

Sadat accettò che la linea del fronte israeliana passasse a ovest dei valichi. Israele accettò che l’Egitto posizionasse otto battaglioni e trenta carri armati a est del canale; da parte sua Sadat dichiarò che non avrebbe esercitato il diritto di dispiegare quei carri armati. […] L’accordo non solo comportava il ritiro delle forze israeliane dai loro salienti nella riva occidentale del canale, ma segnava anche il primo passo del ritiro di Israele dai territori conquistati nel 1967. […] [Con la Siria] l’accordo consentiva ai siriani di posizionare nove brigate di fronte a Damasco. […] Quando l’accordo fu firmato, il 31 maggio 1974, le forze israeliane si ritirarono dal loro saliente e le spettrali rovine di Quneitra furono restituite alla Siria[19].

D’altro canto si era formato un asse di acciaio tra buona parte dei paesi africani e asiatici proprio sul tema della Palestina, capace di indirizzare il dibattito e di influenzare le deliberazioni [dell’ONU]. A partire dal quel momento in tutti i documenti ufficiali delle Nazioni Unite Cisgiordania e Gaza furono definiti come Occupied Arab Territories (“territori arabi occupati”) di contro al fatto che fino al 1967, quando questi erano ancora sotto giurisdizione militare giordana ed egiziana, tale espressione non era mai stata usata. Dopo una estate, quella del 1975, dove ci si spinse al punto di cercare di espellere Israele dalle Nazioni Unite, privandola della qualità di membro dell’Assemblea, il 10 novembre di quell’anno veniva approvata la risoluzione 3379 con quale si definiva il sionismo come “una forma di razzismo e di discriminazione razziale”. Si trattava del punto più critico nel non già facile rapporto tra l’Onu e lo Stato ebraico. La risoluzione, per la quale avevano votato a favore 75 membri (di fronte a 35 contrari e a 32 astenuti), per sedici anni, ovvero fino alla sua revoca, nel dicembre 1991, condizionò fortemente le relazioni con Gerusalemme, facendole filtrare attraverso un giudizio che ne rimarcava la natura di Stato provvisorio perché frutto di un peccato originale, l’espulsione dei palestinesi[20].

Il nodo di Gaza (scheda storica) Durata 05:01 Sorgente di vita del 27/07/2014

 

[13] Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Bari, 2003, p. 1095.
[14] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 91.
[15] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 134.
[16] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 93-94.
[17] Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Bari, 2003, p. 1098.
[18] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 154-155.
[19] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 113-114.
[20] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 167-168.

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