Amore e giustizia
L’espressione amerai il prossimo tuo come te stesso è presente nella tradizione ebraica, nella Torah.
Non vendicarti e non conservar rancore verso i figli del tuo popolo,
e desidera per il tuo prossimo quello che desideri per te. Io sono il Signore[19]
Considerando troppo difficile l’applicazione effettiva del principio di amare il prossimo come se stessi, la tradizione lo ha più spesso interpretato nel senso di “farai per il tuo prossimo ciò che faresti per te stesso”, enunciando un principio di solidarietà e fratellanza universale che solo una prospettiva limitata non vedrebbe nell’ebraismo.
L’idea secondo cui il Dio cristiano sarebbe amorevole e misericordioso, e quello ebraico severo e vendicativo è, di fatto, il risultato di una posizione basata su leggerezza e pregiudizio.
La moralità che riguarda tutti, secondo la Bibbia ebraica, è giustizia, correttezza, l’evitare di recare offesa. Questa fu la prima cosa che Abramo dovette insegnare ai suoi figli: <<seguire le vie del Signore facendo ciò che è buono e giusto>>. Giustizia, correttezza e l’evitare di recare offesa sono quello che dobbiamo a chiunque, ebreo o gentile, credente o ateo, amico o estraneo, connazionale o straniero. (…)
Così la Bibbia ebraica combina i due elementi fondamentalmente diversi della vita morale/etica. C’è la giustizia, e c’è l’amore. La giustizia è universale. L’amore è particolare. La giustizia deve essere distaccata, imparziale, applicata in modo equo nei confronti di tutti. L’amore non vi esercita alcun ruolo. Se decido in favore del querelante perché è un membro della famiglia, o un amico, questa non è giustizia ma travisamento della giustizia. L’amore d’altra parte, è assolutamente particolare. (… )
Elokim Dio universale, è Dio-come-giustizia, Hashem, Dio particolare, è Dio-come-amore (…)[20].
Il concetto di amore nel senso di amore di Dio verso l’uomo e di quello dell’uomo verso il prossimo è ben presente nella Bibbia ebraica e nei commenti ebraici al Testo.
Il Dio di Israele è caratterizzato da una serie di attributi due dei quali sono l’amore (anche inteso come pietà e come bontà) e la giustizia.
Già nella più antica letteratura ebraica, in quella che è forse la creazione mitica della storia d’Israele e la tradizione del primitivo ceppo etnico, Dio ha quel carattere che più tardi il cristianesimo vorrà rivendicare per sé, come una novità del suo annunzio. Ma non è possibile scindere il concetto del divino secondo gli ebrei nei due elementi che lo compongono. Esso risulta pieno e integro soltanto nella somma dei suoi due elementi essenziali: la giustizia e la pietà, e non è lecito far astrazione, nell’organismo dell’idea religiosa d’Israele, dal Dio che è amore. Nell’amore di Dio l’ebraismo si è rifugiato eternamente e v’ha attinto la forza per il suo martirio e per la sua missione tra gli uomini (…) c’è talvolta una così commovente femminilità nella rappresentazione ebraica di Dio che non può essere che l’espressione d’un sentimento organico dell’anima popolare e d’una concezione di cui essa è elemento sostanziale. Come il padre ama i figli, Dio ama coloro che lo temono, e questo amore è biblicamente fatto di pietosa maternità; è un amore pieno di commossa dolcezza che non ha limiti, che perdona, che compatisce come quello della madre[21].
Dalle idee di giustizia e di amore che caratterizzano Dio nella visione ebraica deriva anche il concetto di “elezione” del popolo ebraico: l’amore di Dio nei confronti di questo popolo e della sua discendenza viene controbilanciata dalla scelta che Dio fa di esso come il depositario dell’idea di rettitudine verso tutti gli uomini.
Gli attributi di Dio più cari alla letteratura religiosa d’Israele sono gli attributi etici.
L’elezione d’Israele, tanto era serena e ardente la sua concezione della giustizia, deriva da questa constatazione: che quella gente sarebbe stata maestra di giustizia agli uomini; che questa ricerca di armonia sarebbe stata la sua passione; ch’essa avrebbe saputo interpretare agli uomini il messaggio divino, la parola delle necessità morali, le vie dell’unità meglio di ogni altro popolo. E la severità della legge si effettua innanzi a tutto e più di tutto contro questo popolo che è forse migliore degli altri e deve essere migliore[22].
Con la scelta di eleggere un popolo Dio pone un onere a carico dello stesso: Dio è depositario della verità e, per la sua stessa essenza, non può fare scelte ingiuste: è l’uomo quindi che deve meritare questa elezione con il proprio comportamento terreno, dovendo tendere alla rettitudine e facendosi portatore del messaggio divino attraverso comportamenti ispirati dalla giustizia.
È come se il popolo ebraico dovesse “meritare” questo privilegio e per questo su di esso pende l’onere dell’obbedienza ai precetti.
Nel dovere di seguire una precisa etica comportamentale, consiste anche, come è stato detto, la contropartita della elezione del popolo ebraico da parte di Dio. E dire che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio, significa dire che, solo tenendo comportamenti eticamente corretti, l’umanità potrà proseguire l’opera creativa di Dio sulla Terra.
Come detto, l’esperienza religiosa ebraica non si esaurisce nel rapporto verticale tra l’uomo e Dio, ma si completa e si realizza nei rapporti orizzontali tra uomini.
Molte mitzvòth, i precetti cui si spira la vita dell’individuo ebreo (si veda l’unità sulla libertà), hanno un carattere antropologico, e sono tese a regolamentare e a definire i rapporti sociali. Anche i Dieci Comandamenti, possono essere divisi in due gruppi: i primi cinque riguardano i rapporti tra uomo e Dio, i rimanenti proibiscono invece comportamenti anti-sociali e disciplinano dunque i rapporti tra uomini.
Ogniqualvolta la Torah cerca di insegnarci la mitzvah della solidarietà e della simpatia per coloro che sono oppressi nella società, ci rammenta la situazione analoga che noi stessi abbiamo vissuto durante la schiavitù in Egitto. Gli elementi più indifesi all’interno della società sono normalmente gli schiavi, gli stranieri (i proseliti), le vedove e gli orfani e la Torah ci incoraggia sovente a dimostrarci sensibili al loro disagio (…).
L’esperienza egiziana può essere intesa come la fonte di ispirazione morale per l’insegnamento della compassione, che tanto pervade la legislazione ebraica: ha reso più acuta la sensibilità etica e la coscienza morale. (…)
Il rispetto per la dignità umana e la giustizia sociale sono insiti nel concetto biblico della creazione dell’uomo ad immagine di Dio[23].
Il periodo della schiavitù in Egitto[24], centrale nella storia del popolo ebraico, è quindi servito da insegnamento per far sì che ogni individuo ebreo, ricordando l’esperienza di schiavo, adotti un comportamento eticamente giusto, che sia rispettoso dei più poveri, dei deboli e degli emarginati all’interno della società.
Ma dire che l’uomo deve comportarsi secondo giustizia, significa anche qualcosa in più.
La legge ebraica, al di là dei divieti, insiste molto sull’obbligo morale di essere caritatevoli e fornire aiuti, anche ai nostri nemici: tali imperativi, finalizzati a coltivare la sollecitudine nei confronti delle altrui necessità, non sono stati altrettanto sviluppati in altri sistemi legali (…)[25]
Tra i precetti che riguardano i rapporti orizzontali tra uomini, la beneficenza riveste un posto particolare. Esiste un dovere di responsabilità che ogni uomo ha nei confronti di chi nella vita ha avuto meno e che va attuato con amore e con generosità.
Il termine ebraico solitamente tradotto con beneficenza è tzedakà, che letteralmente significa giustizia. Praticando la tzedakà, fornendo al povero ciò di cui ha bisogno, l’uomo contribuisce a ridistribuire i beni e a realizzare una giustizia sociale attraverso una più equa divisione della ricchezza.
Ancora più importante, sarebbe riuscire a soccorrere la persona in difficoltà prima ancora che la situazione la costringa a sperare nell’aiuto altrui, fornendo per esempio un lavoro, un’opportunità.
Di fronte all’importanza di questo precetto, viene destituito di fondamento un pregiudizio – l’avarizia – purtroppo molto diffuso.
Storicamente, ognuno era tenuto a versare almeno la decima dei propri guadagni e ciò equivaleva nella sostanza a donare la decima parte del raccolto; oggi tale onere si è trasformato nel versamento di una somma di denaro pari ad almeno il dieci per cento dei guadagni.
È molto importante l’attitudine con cui si attua la tzedakà: bisogna farla con la giusta predisposizione, con il sorriso. Solo così sarà adempiuto l’obbligo.
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Nel testo ricorre il concetto di un timore nei confronti di Dio, ma esso non è paura della sua potenza o della sua forza, è invece rispetto filiale e considerazione della sua grandezza e della sua inconcepibilità per l’uomo. Nella concezione ebraica l’uomo timorato di Dio non è quello che, succube, patisce gli imperativi di un essere superiore, bensì quello che, consapevole e rispettoso dei precetti divini, vive serenamente e felicemente, confidando nella benedizione divina.
La figura dell’uomo «timoroso di Dio», quale è presentata più volte nei Salmi, è la figura d’un uomo felice, invidiabile, la cui vita laboriosa e serena è ricca d’ogni bene e di ogni soddisfazione morale, quali la sua onesta condotta gli ha procurato sotto l’impulso della sua fervida soggezione ai precetti divini; non è la figura dell’uomo oppresso dall’incubo d’una severa divinità, ma dell’uomo fiducioso nella provvidenza di Dio, che è larga di benedizioni per chi e rispetta le leggi, per chi ne segue le vie[26].
Il rapporto tra Dio e il popolo ebraico viene spesso rappresentato nella Torah attraverso la metafora del rapporto matrimoniale, dove Dio figura come sposo e il popolo come la sposa.
I termini che la Bibbia adopera per designare questi sentimenti di Dio verso il suo popolo sono quelli stessi con cui si indica, nel linguaggio umano, l’innamorarsi di una donna, lo sceglierla o preferirla ad altre, l’amarla[27].
Per esempio:
Ricordo a tuo favore la bontà che mi hai manifestato quand’eri fanciulla,
l’amore dei tempi delle tue nozze, quando tu mi seguisti nel deserto, in una terra incolta[28]
Amore e giustizia sono due forze, due tensioni, che se non bilanciate rischiano di perdere la propria accezione positiva.
Il grande amore che Dio riserva al popolo ebraico è in qualche modo controbilanciato dalla grande responsabilità che Dio stesso attribuisce a tale popolo: l’essere depositario della giustizia che caratterizza Dio stesso.
Dio, per Israele, significa santità, perfezione, atto d’amore e di giustizia: conoscere Dio vuole dire adempiere al bene; amare Dio vuol dire amare gli uomini[29].
Il motivo per cui probabilmente è nato il pregiudizio secondo cui l’ebraismo non sarebbe – a differenza del cristianesimo – religione dell’amore, risiede nel fatto che l’ebraismo non è disposto a credere in un amore assoluto e incondizionato, perché questo rischierebbe di ignorare la giustizia e non essere applicazione del bene reale e completo. Esso va quindi mitigato dalla giustizia che invece, uguale per tutti, consente di realizzare l’equità cui tende Dio[30].
Possiamo a questo proposito prendere in considerazione il celebre racconto delle due donne che si recano da Re Salomone per dirimere la loro controversia: le due donne reclamano la maternità di uno stesso bimbo e Re Salomone, dopo aver chiesto chi fosse la vera madre e aver ricevuto una risposta positiva da ciascuna, propone – per accontentare entrambe – di dividere il bimbo in due. Egli sa che la vera madre, pur di tenere in vita il figlio, non avrebbe consentito che questo morisse venendo diviso in due a costo di non vederlo mai più. Così Re Salomone individua la legittima madre, in grado di compiere il più alto slancio di amore: quello di rinunciare al bambino pur di tenerlo in vita. Si evince da questo episodio che né la giustizia (di dividere in due il bambino), né l’amore (che porta a dire menzogne pur di realizzarsi) possono essere positivi se assoluti, ma si realizzano solo se mitigati l’uno dall’altro.
Nella visione ebraica chesed, l’amore nella sua accezione di attributo divino, non ha in sé una connotazione né positiva né negativa, ma laddove l’amore sia libero da vincoli è in grado di giungere a risultati concreti paradossali o, addirittura, catastrofici. Per tale ragione, nel mondo umano, composto da individui che formano una collettività, l’amore deve essere necessariamente mitigato dalla giustizia.
Allo stesso modo, la giustizia fine a se stessa, in assenza di amore può giungere a risultati che, seppur astrattamente definibili equi, nel mondo reale sarebbero invece del tutto inappropriati. Per riprendere l’esempio sopra descritto di Re Salomone: dividere il bambino in due, astrattamente, rispetterebbe un criterio di divisione in parti uguali, mentre, nel mondo reale, corrisponde a un’atrocità nei confronti di un neonato. Pertanto, la giustizia nel mondo reale non sarebbe in grado di realizzarsi senza l’apporto dell’amore.
In sintesi, non bisogna guardare a giustizia e amore come a due pulsioni opposte e inconciliabili. Secondo le teorie mistiche, sarebbe la misericordia a intervenire per conciliare l’estrema tensione dell’amore a tutto concedere e perdonare con il rigore e la possibile rigidità della giustizia. L’ebraismo contempla la dimensione amorosa di Dio, ma ritiene che l’amore, se assoluto, diventi potenzialmente pericoloso proprio perché cieco, e per questo esso viene mitigato dalla giustizia.
Nell’ebraismo quindi, l’amore, nella stretta connessione con la giustizia, diventa uno degli elementi necessari alla realizzazione della pace e della verità.
[19] Levitico, 19, 18.
[20] Jonathan Sacks, Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa, Roma, Giuntina, 2017, pp. 210-211
[21] Dante Lattes, L’idea d’Israele (apologia dell’ebraismo), Roma La Rassegna Mensile di Israel, 1951, pp. 36-37
[22] Ivi, p. 36
[23] Joseph B. Soloveitchik, Riflessioni sull’ebraismo, a cura di Abraham R. Besdin, Giuntina, Firenze, 1998, pp. 199-200
[24] Si veda l’unità sulla libertà, paragrafo “La tradizione di Pesach”
[25] Ivi, p. 201
[26] Dante Lattes, Aspetti e problemi dell’ebraismo italiano, p. 253
[27] Dante Lattes, Aspetti e problemi dell’ebraismo italiano, Borla editore, Torino, 1970, p. 261
[28] Profeti, Libro di Geremia, 2,2.
[29] Dante Lattes, L’idea d’Israele (apologia dell’ebraismo), Roma La Rassegna Mensile di Israel, 1951, p. 32
[30] Per approfondire questi concetto si veda, Roberto della Rocca, Con lo sguardo alla luna. Percorsi di pensiero ebraico, Firenze, 2015, Giuntina, p. 183 ss.