La tradizione di Pesach

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Nella tradizione ebraica, come è stato anticipato, la libertà riveste un valore fondamentale e il modo di intendere la libertà è proposto in una forma densa di significati nel corso di una delle festività più sentite, cioè Pesach[8].

L’haggadà, il libro che si legge in occasione della ricorrenza, narra dell’uscita del popolo ebraico dall’Egitto e successivamente del lungo, faticoso, edificante percorso compiuto dal popolo ebraico per passare dalla condizione di schiavitù alla determinazione come popolo libero.

Gli ebrei, guidati da Mosè, scappano dall’Egitto attraversando il Mar Rosso

Ogni anno, nel corso della cena tradizionale (seder) che si celebra, fuori da Israele, per le prime due delle otto sere di Pesach[9], ogni individuo ebreo – si dice- deve considerare come se esso stesso avesse conquistato la libertà; è scritto infatti nella haggadà:

In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito dall’Egitto, come è detto (Esodo XIII – 8): “Tu, in quel giorno, racconterai a tuo figlio e dirai a lui: noi facciamo queste cose per ciò che il Signore fece a me quando uscii dall’Egitto”. Infatti Dio santo e benedetto non ha liberato soltanto i nostri padri ma, con loro, ha liberato anche noi, come è detto (Deuteronomio VI – 23): “Il Signore ci fece uscire da là per condurci e dare a noi la terra, come aveva giurato ai nostri padri.”

È così che l’Egitto diventa, per ciascuno, in ogni generazione fino a oggi, metafora dell’oppressione e di quelle avversità contro cui bisogna lottare per uscire dalle proprie personali schiavitù e ritrovare la propria libertà.
Ogni individuo ebreo, ogni anno, durante il seder diPesach, rivive in prima persona quella vicenda, che non rimane fatto storico lontano, ma partecipazione responsabile a un evento che ogni anno si rinnova.

L’insegnamento della storia dell’Esodo, dell’uscita dall’Egitto, durante la sera del seder di Pesachstabilisce un filo ideale tra passato, presente e futuro, quasi creando un continuum: la storia infatti viene rivissuta al presente e soprattutto insegnata ai figli che, partecipando con le proprie domande, rivestono un ruolo fondamentale nella celebrazione della cena tradizionale.
Forte è il valore pedagogico della festività di Pesach.

Per far sì che in ogni generazione ciascuno si senta come se egli stesso sia uscito dall’Egitto, l’haggadà ha tenuto conto di quattro diverse tipologie di figli; ciascuno, a suo modo, si interroga sul significato dell’uscita dall’Egitto: il saggio, il malvagio, il semplice e colui che non sa formulare domande.
Poiché non tutti sono uguali, e i registri di apprendimento possono essere molto differenti, il genitore deve essere in grado di spiegare a ciascuno il significato della celebrazione del seder, adottando per ogni tipologia di figlio il metro linguistico e comportamentale più adatto. I modi possono essere diversi, ma i genitori devono sapersi adeguare a chi è abbastanza assennato ed è in grado di formulare domande, a chi si avvicina alla celebrazione con pregiudizio o diffidenza, a chi per il proprio grado di maturità può essere ancora privo dei mezzi per poter adeguatamente partecipare alla celebrazione e a chi neppure è in grado di interrogare gli altri sul perché dei riti pasquali.
L’insegnamento, ovvero la memoria tramandata di generazione in generazione è un aspetto chiave dell’ebraismo, che sprona ad interrogare genitori ed ascendenti per chiedere del passato e meglio affrontare il futuro.

La tavola di Pesach con le haggadoth pronte per la lettura

La tavola di Pesach con le haggadoth pronte per la lettura

È importante inoltre sottolineare come le Tavole della Legge siano state concesse da Dio al popolo ebraico solo dopo che esso era divenuto popolo libero: esso non avrebbe infatti potuto meritare tale dono se non avesse lasciato alle proprie spalle il tempo della schiavitù in Egitto.
Il tempo della schiavitù in Egitto viene ricordato numerose volte nella Torah: poiché memore del periodo in cui fu schiavo, ogni ebreo è tenuto ad una condotta eticamente responsabile nelle manifestazioni della sua vita e nei rapporti con il prossimo.

Osservate anche come la Bibbia ebraica non parli principalmente di conoscenza, di ragione, o di emozione, ma di ricordo. (…) L’imperativo del ricordo risuona come un leitmotiv per tutta la prosa biblica: il verbo zakhor, (…) compare non meno di 169 volte. Il ricordo, in questo senso, è il rovesciamento dei ruoli: non angustiare lo straniero perché un tempo eri nella condizione in cui si trova lui ora. Vedi il mondo dalla sua prospettiva perché è stata quella dei tuoi antenati, e non hai mai smesso di ricordare e di rappresentare di nuovo la loro storia[10].

Ed è proprio dal ricordo dei tempi in cui si è stati schiavi in Egitto che deriva il monito a sempre rispettare ed aiutare chi si trovi in una condizione disagiata o di difficoltà.

E quando un forestiero faccia dimora con voi nel vostro paese,
non dovete fargli sopruso.
Il forestiero dimorante con voi dev’essere per voi uguale ad un vostro indigeno,
ed amerai per lui quel che ami per te;
perché anche voi siete stati forestieri nella terra d’Egitto[11]

***

Nel 1943, in Polonia, a Varsavia, si svolgeva una vigilia di Pesach molto particolare.

L’annientamento degli ultimi resti della comunità ebraica di Varsavia, non giunse inaspettato. In aprile, nel giorno precedente l’<> finale, giunsero nel ghetto informazioni dalla parte <> della città: fonti della polizia preannunciavano un imminente attacco del ghetto. I nazisti lo realizzarono lunedì 19 aprile 1943, la vigilia di Pesach. Gli ebrei, pur nel timore di quella inevitabile catastrofe che stava approssimandosi, non trascurarono i tradizionali preparativi per la festività. Pesach restava Pesach, anche nel ghetto di Varsavia, anche nel 1943[12].

Queste poche righe ci dimostrano da un lato come, anche nelle condizioni più difficili – persino nella Polonia occupata dai nazisti e nel pieno dei tragici eventi della Shoah – gli ebrei siano rimasti fedeli alla propria identità, rinnovando il rispetto della tradizione e delle festività.
Dall’altra, ci rivela come, per casualità, i giovani combattenti del Ghetto di Varsavia, abbiano inaugurato un periodo di lotta e rivolta all’inizio della festa di Pesach, proprio in concomitanza con la celebrazione del percorso di rinascita del popolo ebraico che migliaia di anni prima, affrancandosi dalla schiavitù in Egitto, muoveva i suoi passi alla conquista della libertà.
Sebbene la rivolta non poté fermare il triste piano di evacuazione del Ghetto pianificato dai nazisti, e nonostante la difficoltà delle comunicazioni, la voce delle vicende della rivolta si diffusero, e consentirono ad altri gruppi di prendere coraggio e azzardare delle rivolte.
Sebbene tali tentativi furono destinati ad essere soppressi, essi evidenziano come la raffigurazione degli ebrei come passivi e sottomessi – specie durante il periodo delle persecuzioni naziste – sia priva di fondamento e, in alcuni casi, frutto del pregiudizio. Oltre alle vicende del Ghetto di Varsavia, infatti, sono esistiti altri episodi di ribellione e resistenza nei confronti dell’oppressore/persecutore.

[8] Si veda l’unità sul calendario ebraico
[9] Nei tempi antichi fuori da Israele, e cioè nei paesi della diaspora, risultava difficile comunicare l’esatta data in cui cadevano le ricorrenze ebraiche; per questo motivo le si faceva durare un giorno in più, quindi per evitare errori. Questa tradizione permane fino ai giorni nostri, sebbene oggi esistano tutti gli strumenti per calcolare esattamente la data di inizio delle festività.
[10] Jonathan Sacks, Non nel nome di Dio, La Giuntina, Firenze, 2017, p. 198-199
[11] Levitico, 19, 33-34
[12] Israel Gutman, Storia del ghetto di Varsavia, La Giuntina, Firenze, 1996, p. 145

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