Il senso dell’esilio

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Una considerazione preliminare rispetto alla ricostruzione storica è relativa al senso che gli ebrei hanno sempre attribuito alla loro condizione, che li ha visti a lungo privi di una patria e in ogni epoca legati a un’altra identità nazionale[1]. Da un lato, infatti, gli ebrei hanno sempre manifestato lealtà al Paese di appartenenza e hanno seguito l’obbligo di rispettarne le leggi.

“Dinà demalchutà dinà” letteralmente “La legge del regno è legge”; questa sentenza, che compare in alcuni passi del Talmud ed è sviluppata nei codici rabbinici, riferita non al solo regime monarchico ma in genere all’autorità costituita, esprime il riconoscimento da parte della normativa ebraica delle leggi dello stato e il conseguente dovere, anche da un punto di vista religioso, di rispettarle. Non si tratta di un’accettazione indistinta, la halakhà ebraica attribuisce pieno valore solo ad un’autorità che sia stata effettivamente riconosciuta nel territorio cui intende presiedere, la legge deve avere un’utilità per il paese e rientrare nell’ambito di un codice di norme approvato, deve inoltre rivolgersi a tutta la popolazione, non in maniera discriminante, in favore o a torto di qualcuno. Oltre a questi requisiti, che riguardano il rapporto dell’autorità con il paese e la popolazione di riferimento, per quanto si riferisce in particolare al pubblico ebraico, si esclude che una legge dello stato possa esentare dall’osservanza di un esplicito comandamento religioso o imporne la trasgressione. Su questi criteri si è articolato il rapporto dell’ebreo (quando non costretto dalla violenza del potere) nei confronti dell’autorità dello stato. Non tutti i problemi sono risolti, spesso le questioni si devono affrontare caso per caso, soprattutto quando si pongono situazioni di vera o presunta incompatibilità tra legge dello stato ed osservanza delle prescrizioni religiose[2].

Ma non solo. Il popolo ebraico, infatti, ha fronteggiato queste diverse situazioni facendo di necessità virtù. Si è adeguato alle circostanze e ha saputo anche realizzare una produzione culturale che è entrata di diritto nei testi fondamentali. Un importante riferimento va al Talmud (in ebraico “studio”)[3], il corpus di commenti, usi, leggi e consuetudini ebraiche compilato in epoche diverse in due luoghi differenti. Testo sacro secondo soltanto alla Bibbia, il trattato si divide nel Talmud di Gerusalemme, terminato alla fine del IV secolo a.e.v., e nel Talmud Babilonese, concluso un secolo più tardi, in terra straniera, come si evince dal nome. Quest’ultimo è il più corposo, completo e studiato. Il Talmud, scritto in un’epoca diasporica, aveva proprio la funzione di preservare le tradizioni orali che rischiavano di scomparire. Esso si divide in Mishnah, insegnamento da ripetere, e Ghemarah, complemento, ovvero commenti vari al testo. Scritto in ebraico e in aramaico, il Talmud non è un testo monolitico, ma contiene la Halakah, le regole dell’ebraismo, con i commenti dei rabbini e dei saggi dell’epoca annotati a margine. Discorso simile vale per la kabbalah (letteralmente “ricezione”), la corrente esoterica dell’ebraismo. Storicamente, la Cabala emerse, dopo le prime forme di misticismo ebraico, nella Francia meridionale e nella Spagna tra il XII e il XIII, prima di essere reinterpretata durante il rinascimento mistico ebraico del XVI secolo. Fu resa popolare in forma di ebraismo chassidico dal XVIII secolo in poi.

Il senso comune vuole che diaspora ed esilio siano coincidenti. Non credo che sia così.
L’esilio è la nostalgia di un luogo da cui ci divide un evento traumatico e che tendiamo ad annullare, volendo ristabilire la condizione di partenza. La diaspora non è solo, né prevalentemente nostalgia. È sfidare il proprio tempo e rispondere alle persecuzioni andando altrove, reinvestendo su un nuovo inizio da un’altra parte. È conservare un po’ di ciò che si riesce a salvare nella fuga, soprattutto è reinvestire il nuovo luogo di una speranza di rinascita, di crescita e anche rinnovamento e senza dimenticare che prima o poi, forse, si tornerà da dove siamo partiti all’inizio, consapevolmente diversi[4].

La Diaspora si configura dunque come un passaggio intrinseco all’ebraismo per tanti aspetti. La perdita di una sovranità e di una forma di identificazione legata a un contesto territoriale di residenza doveva rendere infatti il riferimento ai testi sacri e ai loro commenti l’elemento comune di comunità disperse in varie parti del mondo, ma unite da riferimenti di valori e regole di vita comuni.

MEIS – Con gli occhi degli ebrei italiani

“EBREI IN ITALIA” (UCEI)

[1] Per approfondimenti si veda l’unità su “Ebrei e Stato di diritto”, e l’unità “Antisemitismo”, paragrafo L’illuminismo.
[2] Giuseppe Momigliano, 17 maggio 2017 http://moked.it/blog/2017/05/17/leggi-8/.
[3] Si veda l’unità “L’idea di Dio”, paragrafo “Genesi e Fonti”.
[4] David Bidussa, 3 settembre 2017 http://moked.it/blog/2017/09/03/diaspora-5/.

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