Dalle prime Aliyhot allo Stato d’Israele

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La storia degli ebrei è segnata ineluttabilmente dalla rottura di un legame con una “madrepatria”, il luogo dove avevano acquisito pieni diritti di cittadinanza e di residenza. Purtroppo tale legame non fu sempre sereno e lo sviluppo in epoche moderne di stati nazionali suggerì agli ebrei di cercare anche per sé una soluzione “nazionale”. L’acquisizione di un’identità nazionale, nel senso di un rapporto di appartenenza a un territorio, si realizzò solo dal XIX secolo, in virtù di una serie di contingenze politiche, culturali e ideologiche. Da qui le prime forme di proto-sionismo[53], fino alla nascita del “sionismo” vero e proprio con Theodor Herzl alla fine dell’’800.

Il nuovo nazionalismo ebraico nacque non solo come una reazione ebraica all’antisemitismo moderno, come è stato sostenuto dai suoi oppositori, ma anche per un bisogno e una dinamica interni. Il sionismo derivò i suoi valori dall’ambiente generale in cui nacque, e i suoi obiettivi possono essere facilmente identificati con quelli dell’epoca: libertà nazionale e libertà individuale, accompagnate dal progresso sociale ed economico. I primi sionisti furono tutti uomini del diciannovesimo secolo […]. Il fatto che un secolo dopo le rivoluzioni americana e francese gli ebrei fossero ancora accusati di essere un gruppo straniero indusse molti a cercare una soluzione più efficace. Fino all’epoca dell’emancipazione, nessuno dubitava dell’esistenza di una nazionalità ebraica[54].

L’emigrazione verso la Palestina fu così un processo graduale, favorito da numerosi elementi di segno contrapposto: in Europa occidentale, infatti, l’emancipazione successiva alla Rivoluzione francese generava una progressiva acquisizione di diritti e libertà, ma non venivano meno elementi di antisemitismo, tanto che il caso che avrebbe portato Theodor Herzl a mobilitarsi per favorire la nascita del sionismo fu il processo Dreyfus[55]. Ad est, in Russia in particolare, l’autocrazia zarista non lasciava spazio ad alcuna forma di espressione della popolazione, mentre gli ebrei erano sottoposti a continue persecuzioni.

Gli ebrei, come gli altri popoli oppressi, trovarono la soluzione nell’idea della liberazione nazionale. […] Si rifecero a ricordi storici d’indipendenza politica e religiosa. Nel 1862, il rabbino Zvi Hirsch Kalischer aveva scritto un libro per dimostrare che la promessa messianica della Bibbia significava la riconquista dell’indipendenza nazionale ebraica nell’avita terra d’Israele. Moses Hess, nel suo libro “Roma e Gerusalemme”, auspicò la fondazione di uno stato ebraico basato su principi etici come la soluzione più equa e radicale del problema ebraico. Kalischer e Hess non riuscirono a organizzare un movimento che sostenesse le loro idee, ma in questi due uomini si trovavano giù rappresentate le due correnti che diedero origine al sionismo: il messianismo e l’idealismo sociale. Un terzo contributo fu l’opuscolo di Leon Pinsker, dal sottotitolo “Ammonimento di un ebreo russo ai suoi confratelli”, che diventò uno dei testi canonici del sionismo. […] Pinsker cambiò il proprio atteggiamento sul destino degli ebrei in seguito all’ondata di pogrom e alla politica antiebraica del governo russo interno al 1880. Nel suo opuscolo “Autoemancipazione” Pinsker fece una diagnosi del problema ebraico e prescrisse come rimedio la creazione di una «base» territoriale, che in seguito fu identificata con la Palestina. […] Non può sorprenderci che l’idea di una nazionalità ebraica mettesse radice così rapidamente fra gli ebrei dell’impero russo[56].

All’inizio del XIX secolo, la popolazione globale della Palestina, allora una periferica provincia dell’Impero Ottomano, era di circa 300.000 persone, di cui 5.000 ebrei e 25.000 cristiani. Nel 1840, […] gli ebrei erano raddoppiati a 10.000. Nel 1880, la popolazione globale era salita a 450.000 individui, di cui 45.000 cristiani e 24.000 ebrei […] La presenza ebraica in quella che per gli ebrei della diaspora restava il principale punto di riferimento religioso e mitico, la Terra Santa, non era scomparsa completamente nel corso del Medioevo, e si era accresciuta dopo l’espulsione degli ebrei dalla Spagna con l’arrivo di gruppi di sefarditi stabilitisi a Hebron, Safed, Tiberiade e Gerusalemme. […] Alla fine del Settecento, gruppi chassidici provenienti dalla Polonia e dalla Lituania si insediano a Safed e Tiberiade, e all’inizio dell’Ottocento arrivano i lituani discepoli del Gaon di Vilna. […] Dopo il Trattato di Parigi del 1856 che impone al sultano l’uguaglianza civile dei non musulmani tanto ebrei che cristiani, la presenza ebraica ha un deciso incremento[57].

Il nascituro Stato d’Israele iniziò così a rappresentare la meta privilegiata delle migrazioni degli ebrei sin dall’Ottocento. Alle esigenze migratorie si aggiungevano, con diversa intensità a seconda dei casi specifici, un attaccamento alla religione e una riscoperta delle proprie origini. Con questa migrazione si realizzava il fenomeno della Aliyà, in ebraico salita, intesa in senso spirituale, termine che indica il ritorno degli ebrei in Erez Israel, la Terra d’Israele, la Terra dei Padri. Dalla fine del XIX secolo si susseguirono cinque ondate migratorie, esattamente negli anni 1882-1903, 1904-1914, 1919-1923, 1924-1928, 1929-1939. Il bisogno di emigrare si fece più impellente, oltre che ovviamente negli anni delle persecuzioni nazifasciste, durante il periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando molti ebrei europei avevano perso la propria famiglia, ogni loro bene, ma soprattutto la fiducia nella patria in cui avevano creduto e che in molti casi avevano contribuito a costruire e a difendere[58].

Tra l’estate del 1945 e la primavera del 1948 oltre 23.000 ebrei partirono clandestinamente dall’Italia per la Palestina. Fra i sopravvissuti alla persecuzioni e ai campi di sterminio, infatti, molti non ritenevano più possibile ricostruire le proprie esistenze in un’Europa devastata da un odio razziale che aveva provocato vuoti dolorosi nelle famiglie, nelle antiche comunità, nelle coscienze individuali; Erez Israel, l’antica terra del popolo ebraico appariva l’unica meta verso la quale indirizzare le speranze di ricostruzione delle esistenze sradicate[59].

Gli ebrei dovettero fare i conti con le restrizioni agli ingressi imposte dal governo britannico che amministrava la ex provincia ottomana come potenza mandataria. La nascita dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, favorì la loro aspirazione e il loro desiderio. Non tutti optarono per la Terra Promessa però: molti, infatti, attraversarono l’Oceano per trasferirsi soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Canada e in America Latina; talvolta raggiungevano parenti già fuggiti all’epoca delle persecuzioni razziali, in altri casi erano affascinati dalla suggestione del Nuovo Mondo. In ogni caso, seguivano una tendenza non nuova all’ebraismo europeo.

Le migrazioni della seconda metà del XX secolo furono fortemente mosse da motivazioni ideologiche e religiose, anche se pure in epoca recente in numerosi casi la scelta risultò essere obbligata, come per gli ebrei espulsi dai Paesi arabi e islamici a partire dal 1948. Una presenza plurisecolare fu quasi totalmente interrotta durante il secolo scorso: degli oltre 983mila ebrei presenti nel mondo arabo e in Asia Minore nel 1948, nel 1996 ne restavano meno di 50mila, concentrati soprattutto in Iran e Turchia, mentre in alcune aree erano totalmente scomparsi. L’Agenzia ebraica ha attuato complessi progetti per favorire questi spostamenti: grandi navi pronte ad accogliere i profughi, ma anche un trattamento medico prima della partenza abbinato alla distribuzione di cibo e di altri generi di prima necessità. Diverse le cause di queste migrazioni: la nuova situazione politica, caratterizzata dalla decolonizzazione, intrecciata agli effetti del conflitto arabo-israeliano sul Terzo Mondo, era la ragione principale; ad essa si univa l’attrazione per la realizzazione del sogno sionista nella Terra d’Israele e le prospettive di crescita socio-economica che il nuovo stato offriva. In alcuni casi furono le violente persecuzioni a costringere gli ebrei ad abbandonare i loro Paesi d’origine, come il pogrom di Oujda in Marocco nel 1948 o le vessazioni perpetrate in Libia in diversi periodi, in particolare nel 1945 e nel 1948. Oggi i fiorenti quartieri ebraici del passato non esistono più. Restano solo piccole comunità concentrate perlopiù in Marocco, Tunisia, Turchia, Iran e Yemen.

Le stime […] variano a seconda delle fonti. Non meno di 650mila profughi ebrei […] si riversarono al di fuori dei confini delle nazioni d’origine. Dal Marocco se ne andarono ben 260mila ebrei, dall’Iraq 129290, dalla Tunisia 56mila, dallo Yemen e da Aden 50550, dalla Libia 35666, dall’Egitto 29525 e così dal Libano, in 6mila, e dalla Siria, in 4500[60].

Sorgente di vita – Sapore di Tripoli – 09/07/2017. Dopo la guerra dei sei giorni nel 1967 migliaia di ebrei di Libia, come quelli di altri paesi arabi, furono vittime di pogrom e bersaglio di ostilità antisemite da parte della popolazione araba con la quale convivevano da secoli. L’assedio, la fuga da Tripoli, l’accoglienza della comunità ebraica di Roma e l’inizio di una nuova vita: emozioni e ricordi di quell’esodo silenzioso nel racconto di tanti ebrei tripolini in una serata al teatro Argentina.

[53] Si veda l’unità sul sionismo, paragrafo “Le origini del sionismo”.
[54] Abba Eban, Storia del Popolo ebraico. Dall’età dei profeti allo Stato d’Israele, Mondadori, Verona, 1971, p. 276.
[55] Si veda l’unità sull’antisemitismo, paragrafo “L’affaire Dreyfus”.
[56] Abba Eban, Storia del Popolo ebraico. Dall’età dei profeti allo Stato d’Israele, Mondadori, Verona, 1971, p. 282-283.
[57] Anna Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 108-109.
[58] Si veda l’unità su ebrei e società civile, paragrafo “Ebrei e stato di diritto”.
[59] Mario Toscano, La “Porta di Sion. L’Italia e l’immigrazione clandestina ebraica in Palestina (1945-1948), Il Mulino, Bologna, 1990, p. 7-8.
[60] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 96.

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