I ghetti

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Con la fine del medioevo e l’avvio dell’età moderna iniziò l’epoca dei ghetti. I ghetti erano quartieri separati dal resto della città da alte mura o da recinzioni. Il portone generalmente era aperto al mattino e chiuso al tramonto: per gli ebrei che vi erano rinchiusi vigeva il coprifuoco e non potevano trovarsi al di fuori nelle ore notturne. Le condizioni igienico-sanitarie all’interno dei ghetti erano generalmente malsane e precarie.

Segregazioni coatte di ebrei cominciarono a verificarsi negli ultimi secoli del Medioevo prima in Spagna poi in Francia e Germania, con la chiusura di questa minoranza in zone specifiche a mezzo di barriere fisiche che presentavano pochi punti di passaggio all’esterno. Dalla fine del Trecento, con l’accentuarsi delle persecuzioni e dei saccheggi e con le prime espulsioni di massa, in tutta la penisola iberica si avviò un processo di “ghettizzazione”. Nell’Impero tedesco la tendenza alla segregazione degli ebrei iniziò a Colonia nel Trecento e proseguì in numerose città: nel 1462 a Francoforte fu istituito lo Judengasse[29] .

Fu un fenomeno tipico dell’Italia controriformistica, ma non mancò di proporre dei modelli anche in altre aree d’Europa, come nel caso di Francoforte.
Il primo esempio di quartiere riservato esclusivamente agli ebrei all’infuori del quale non potevano risiedere fu il ghetto di Venezia. Coloro che vi erano rinchiusi potevano transitare all’esterno solo quando non era in vigore il coprifuoco.

All’inizio del ‘500, con la discesa dei lanzichenecchi, molti profughi si riversarono nella Laguna, inclusi numerosi ebrei. Finita l’emergenza, i veneti volevano allontanare questi sfollati: il Senato però, vista l’abilità degli ebrei nel commercio, optò per un compromesso: decise di separarli dal resto della popolazione, chiudendoli in un apposito quartiere, il ghetto. Il 29 marzo 1516, circa 700 ebrei, soprattutto di origine italiana e tedesca, furono costretti a trasferirsi nell’isola del Ghetto Nuovo, un’area ristretta e malsana nella parte nord-occidentale della città. Agli ebrei levantini (provenienti dall’Impero Ottomano) e a quelli provenienti dalla penisola iberica invece fu riservata l’area del Ghetto Vecchio, aperto nel 1541. L’area del ghetto poteva essere lasciata solo durante le ore diurne e solo una ristretta gamma di mestieri era permessa, come il prestito di denaro, il commercio nel tessile e la medicina. Permanevano i segni distintivi quando lasciavano il ghetto e furono varate tasse supplementari; per alcuni anni fu proibito stampare libri in ebraico. Lo spazio era insufficiente per quante persone vi risiedevano; i palazzi altissimi (fino a nove piani) erano dei veri e propri grattacieli dell’epoca. Nonostante le difficili condizioni, la comunità continuò comunque a crescere. […] Nel 1603 fu aperto anche il Ghetto Nuovissimo. […] La svolta avvenne nel 1796: l’invasione delle truppe napoleoniche e la pace di Campoformio dell’anno successivo sancirono la fine della Repubblica di Venezia e contestualmente lo smantellamento del ghetto. La città finì sotto il controllo dell’Impero Austriaco: per gli ebrei ciò non significò la fine definitiva delle restrizioni, ma il ghetto non fu ripristinato e le condizioni di vita migliorarono gradualmente. Con l’annessione del Veneto al Regno d’Italia (1866) gli ebrei di Venezia ottennero pienamente i loro diritti[30].

Il ghetto di Venezia

Il Ghetto Ebraico di Venezia compie 500 anni.Servizio andato in onda: 23/01/2016

Nel Tre e nel Quattrocento avevano avuto luogo i primi esperimenti in Europa; Venezia “lanciò” il prototipo, ma la generalizzazione del sistema si ebbe solo dopo qualche decennio, su impulso del papato. Sulla scia della Riforma luterana, infatti, la Chiesa prese a vigilare più severamente su ogni forma di alterità, reprimendola: qui rientrò anche il destino degli ebrei. Nel 1543 venne fondata la Casa dei catecumeni, istituto finalizzato alla conversione, spesso forzata, di ebrei e altri infedeli. Ma fu il decennio successivo a segnare la svolta più clamorosa.

Giulio III, asceso al soglio pontificio nel 1550, aveva radicalmente modificato l’atteggiamento della Chiesa riguardo agli ebrei e al Talmud, e di lì a poco Paolo IV avrebbe istituito il ghetto, nel 1555. Momento culminante di questa politica fu il decreto dell’Inquisizione del 12 settembre 1553, con il quale venne ordinata la condanna, la confisca e il rogo pubblico di tutti i Talmud, in quanto contenenti bestemmie contro la fede cristiana. Il 9 settembre i libri ebraici erano già stati dati alle fiamme a Roma in Campo de’ Fiori[31].

Il 14 luglio 1555 Papa Paolo IV emanò la bolla Cum nimis absurdum, inizio del progetto segregazionista per gli ebrei a Roma che avrebbe avuto termine solo nel 1870.

Nel documento si rintracciano un gran numero di idee, rappresentazioni e stereotipi che erano diffusi da secoli, ma che ora trovano una sistemazione completa e definitiva che avrebbe influenzato a lungo la storia delle relazioni tra ebrei e cristiani: la colpa del deicidio, la riduzione in schiavitù quale punizione inflitta da Dio in conseguenza della colpa, l’ingratitudine verso chi li aveva accolti e tollerati, le aspirazioni al dominio sui cristiani, soprattutto l’insolente mescolanza con questi ultimi, con la pretesa di circolare senza segni di riconoscimento – e di esclusione-, di abitare in mezzo a loro, di prendere a servizio personale cristiano[32].

I ghetti sono stati ampiamente descritti come luoghi tristissimi. Massimo D’Azeglio [nel 1847] dice del ghetto di Roma (il quale soffriva oltre tutto delle periodiche inondazioni del Tevere) “Le strade strette, immonde, la mancanza d’aria, il sudiciume che è conseguenza inevitabile dell’agglomerazione forzata di troppa popolazione miserabile, rende quel soggiorno tristi, puzzolente e malsano”[33].

Ettore Roesler Franz, ViaDellaFiumaraAllagata, 1880

I ghetti di Venezia e Roma rappresentarono dunque gli esempi più significativi, ma furono numerose le città italiane ed europee che adottarono questa forma di esclusione nei decenni successivi: Padova, Mantova, Rovigo, Ferrara, Cento, Lugo, Pesaro, Urbino, Senigallia, Reggio Emilia, Bologna, Trieste, Gorizia.

Nell’arco di due secoli, dal 1555 fino al Settecento, tutti gli Stati italiani che non avevano espulso gli ebrei finirono per chiuderli nei ghetti. Non si trattava soltanto di un processo di recinzione degli spazi esistenti. Nel quartiere loro destinato venivano concentrati gli ebrei provenienti non soltanto dalle altre parti della città, ma sovente dalle città vicine e dai luoghi minori dove risiedevano. La ghettizzazione finiva così per essere un’espulsione, anche se lo spazio verso cui gli ebrei venivano costretti a muoversi era uno spazio interno[34].

[29] Marina Caffiero, Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Carocci, Roma, 2014, p. 97.
[30] Daniele Toscano, Venezia, un’isola (quasi) felice per gli ebrei, Shalom, mensile ebraico di informazione e cultura, Marzo 2016, p. 6.
[31] Marina Caffiero, Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Carocci, Roma, 2014, p. 62.
[32] Marina Caffiero, Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Carocci, Roma, 2014, p. 101-102.
[33] Marina Della Seta, “Procedi dinanzi a me”. Storia semplice dell’ebraismo, La Fenice Edizioni, Roma, 1992, p. 133.
[34] Anna Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione, Laterza, Bari, 1992, p. 185.

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