Auschwitz

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Auschwitz (nome tedesco della città polacca di Oswiecim, non lontana da Cracovia) è considerato il simbolo del genocidio; ma rappresentò un fenomeno complesso e articolato, che racchiudeva molteplici aspetti del meccanismo di sterminio ideato dai nazisti. Anzitutto, in questo campo furono eliminati gli ebrei provenienti da tutta Europa, mentre negli altri lager furono uccisi prevalentemente ebrei polacchi o del Paese in cui si trovava il campo. Ad Auschwitz le linee programmatiche definite a Wannsee trovarono piena attuazione. Rispetto ad altri campi, Auschwitz si distingueva per i particolari tecnici dell’esecuzione, per l’internazionalità delle vittime e per il numero più elevato di ebrei uccisi; inoltre, riuniva all’interno del suo complesso due realtà solitamente distinte, il campo di concentramento (Auschwitz I e Buna Monowitz) e il campo di sterminio (Birkenau)[58].

Il campo di Auschwitz fu istituito nell’aprile del 1940 sull’area di un’ex caserma dell’esercito polacco. “Solo” 10 ettari: troppo pochi per realizzare la soluzione finale degli ebrei. Auschwitz divenne così un complesso concentrazionario, con il campo di lavoro di Buna Monowitz e soprattutto con Birkenau, un’industria della morte con camere a gas e forni crematori. Oggi di Auschwitz I non resta che un agghiacciante museo che conserva gli oggetti della vita quotidiana sequestrati ai deportati all’ingresso nel campo; scarpe, valigie, occhiali, protesi, i capelli rasati ai prigionieri. A Birkenau, invece, i luoghi dello sterminio sono ancora visibili: strade perfettamente dritte, 360 blocchi simmetrici, un confine che non si percepisce ad occhio nudo.

Auschwitz I, esterni

Auschwitz I, esterni

Auschwitz II - Birkenau

Auschwitz II – Birkenau. L’ingresso, i confini ed il campo

Auschwitz II – Birkenau

Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! […] Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti[59].

Primo Levi fu deportato nel 1944 presso il campo di Buna-Monowitz o Auschwitz III; ritornò in Italia dopo l’apertura dei cancelli del lager dopo varie traversie documentate nei suoi libri (in particolare “Se questo è un uomo” e “La tregua”).
Proprio Auschwitz è diventato il simbolo dello sterminio.

L’ingresso di Auschwitz I

Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi. […] Sono loro, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che faticano e marciano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. […] Se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero[60] .

Auschwitz II – Birkenau

Auschwitz II - Birkenau

Auschwitz II – Birkenau

 

Laboratorio Levi St 1987 Ritorno ad Auschwitz – Primo Levi
Questa puntata è andata in onda pochi giorni dopo la morte di Primo Levi. Dopo quarant’anni, lo scrittore torna ad Auschwitz, in Polonia, dove ha vissuto la tragedia della deportazione e della permanenza nel campo di concentramento, arrivandoci dopo 5 giorni trascorsi all’interno di un vagone merci piombato. Il suo è un racconto accorato e pieno dell’umanità che nessun nazista possedeva né è stato in grado di sottrargli.</>

Nei lager gli individui venivano annientati oltre che fisicamente anche sul piano psicologico: una volta arrivati al campo, questi dovevano spogliarsi, erano rasati e spinti nel bagno. Qui, al suono di botte e di grida, veniva versata su di loro acqua bollente o gelata. Qualche minuto dopo erano mandati nudi nel cortile (qualunque fosse la stagione), dove ricevevano le uniformi, senza che si tenesse conto delle misure. Successivamente iniziava la registrazione: si annotavano le generalità del prigioniero e in alcuni campi, come ad Auschwitz, gli si tatuava un numero sul braccio: la perdita del nome e il numero, che diveniva unico segno di identità, completavano questo processo di spersonalizzazione, di annientamento dell’identità. In alcuni di questi lager, i deportati erano anche soggetti agli esperimenti folli e violenti dei medici nazisti.

Siamo arrivati al fondo. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo[61].

Le camere a gas furono costruite a partire dal 1942. Per uccidere rapidamente i prigionieri veniva usato il gas Zyklon B, un composto a base di cianuro.
Tuttavia, le terribili condizioni di vita diffuse in ciascun campo, aggiunte alla mancanza di cibo e cure, rendevano ogni malattia una minaccia mortale. Le scarpe inadatte spesso causavano ferite destinate ad aggravare le condizioni dei prigionieri.

Scarpe e protesi sottratte ai deportati, esposte al Museo nel campo di Auschwitz I

Scarpe e protesi sottratte ai deportati, esposte al Museo nel campo di Auschwitz I

I giorni si somigliano tutti, e non è facile contarli. Da non so quanti giorni facciamo la spola, a coppie, dalla ferrovia al magazzino: un centinaio di metri di suolo in disgelo. Avanti sotto il carico, indietro colle braccia pendenti lungo i fianchi, senza parlare. Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che ci segrega dal mondo[62].

Auschwitz fu il più grande cimitero della storia: dei 6 milioni di ebrei morti nella Shoah questo campo provocò un milione e 100mila vittime, il 90% ebrei. Di 15mila ragazzi o bambini che vi erano entrati, solo in 180 furono trovati vivi al momento della liberazione.
I cancelli furono aperti dai sovietici il 27 gennaio 1945.

[58] Francesco Maria Feltri, Il nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei. Lezioni, documenti, bibliografia, Giuntina, Firenze, 1995, p. 93-97.
[59] Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1958, p. 23.
[60] Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1958, p. 112-113.
[61] Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1958, p. 29.
[62] Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1958, p. 50.

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